Compassione “questa sconosciuta”, verrebbe da dire davanti alla mappa dell’intolleranza diffusa da Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, che ha misurato l’odio online registrando come “I tweet intolleranti nel terzo anno della rilevazione modificano la tendenza registrata nei due anni precedenti: diminuisce l’intolleranza contro le persone omosessuali ed esplodono xenofobia, islamofobia e antisemitismo, mentre alto continua a rimanere l’odio contro le donne“.
Strumento per individuare e combattere i fenomeni di cyberbullismo, la mappa dell’odio online – relativa al periodo tra maggio e novembre 2017 e marzo – maggio 2018 – mette in evidenza che “la percentuale dei tweet dell’odio si attesta al 32,45% del totale nel 2017 e sale al 36,93% nel 2018”.
Alla base di questa escalation una graduale e netta chiusura delle persone nel proprio vissuto, ritenuto l’unico “normale” e dunque in opposizione alle altre realtà del mondo circostante, a iniziare da migranti, poveri, omosessuali o semplicemente donne (quindi considerate inferiori e apostrofate come tali). Alla base del clima di odio e scontro sembrano esserci, dunque, l’assenza di dialogo e confronto.
Ma quando si parla di assenza di compassione, quando se ne lamenta la mancanza o invoca il ritorno, esattamente di cosa parliamo? Il vocabolario Treccani ne definisce l’etimologia, esattamente dal tardo latino “compassio”, derivato da compăti (compatire), e il preciso significato: “sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti; partecipazione alle sofferenze altrui”.
Nichiren Daishonin, monaco buddista riformista del 1200, ne parla in modo attivo come l’azione di dare gioia agli esseri viventi togliendo loro la sofferenza. Daisaku Ikeda, filosofo, educatore e maestro buddista giapponese, per definire la compassione parte da una domanda: “Cosa posso fare per quella persona? È da questa compassione che scaturisce la saggezza per compiere azioni concrete.” (in Asa Nakajima, in Nuovo Rinascimento n° 420, maggio 2009).
Gli antichi greci si riferivano alla compassione definendola anche empatia, quell’effetto, spesso scaturito durante le rappresentazioni teatrali, in cui il pubblico era portato a immedesimarsi con i personaggi e le loro storie.
Cristo, nel Vangelo, ne fa largo uso individuando la compassione come strumento di azione dal valore quasi anarchico. San Francesco fonda la sua intera opera sulla compassione nei confronti degli esseri viventi, umani e non. A proposito di Cristo e di compassione, la Pastora Letizia Tomassone, della Chiesa Evangelica Valdese di Firenze, si è così espressa: “Gesù introduce due elementi che sono in primo piano nella predicazione profetica: la giustizia e la compassione. Sono due spinte a non isolarci dal resto dell’umanità. La spinta della giustizia ci offre la visione di un mondo che faccia scomparire le disuguaglianze.” (in Predicazione 18 Giugno 2017).
Il sofista Gorgia, nel V Secolo a.C., ne parla come di uno strumento per piegare l’interlocutore ai propri valori e sentimenti (“chi l’ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l’anima patisce”, in Gorgia, Encomio di Elena), mentre la tradizione greca ne faceva un uso sociale, per immedesimarsi con chi, fra le persone comuni, avesse bisogno della polis e dei suoi interventi. All’opposto gli stoici ne rilevavano l’essenza squisitamente teorica, togliendo al concetto la sfumatura sociale e demandando alla saggezza umana tale compito.
Jean-Jacques Rousseau ritiene la compassione uno degli strumenti dell’educazione umana: l’individuo che cresce con la compassione sarà sicuramente in grado di provare per il mondo, e per gli altri esseri umani, un interesse capace di costruire relazioni soddisfacenti e durature. Dello stesso parere anche David Hume, per il quale “la ragione è, e deve solo essere schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire ad esse.” (in David Hume, A treatise of human nature, libro II parte III).
Se per Kant la compassione è una debolezza dell’animo, sentimento debole e cieco simile a “una certa dolcezza d’animo che passa facilmente in un caldo senso di pietà”, in Schopenhauer la compassione libera il mondo dal dolore universale dell’uomo: solo provando il dolore, l’uomo fa suo il dolore degli altri e riduce il suo dividendolo con la comunità umana. Tale concetto viene ripreso negli anni Cinquanta dal filosofo israeliano Khen Lampert che accende i riflettori sulla compassione intesa come istinto non mediato dalla cultura, primordiale e basico, alla base dei cambiamenti sociali.
Più recentemente tutta la Comunità Europea è impegnata in una epocale trattativa sul fenomeno migratorio per capire se seguire i principi di compassione e mutuo soccorso, alla base della storia delle nazioni che ne fanno parte, o se cedere agli interessi personali, piccoli e grandi, che metterebbero lo stesso concetto di compassione ai margini della cultura europea comune. In entrambi i casi il fenomeno è talmente complesso che prefigurare soluzioni semplici appare solo l’ennesimo strumento politico a scapito di tutti.
In tempo recenti a un raduno di un partito politico sono comparsi cartelli che invitavano le persone che non vedevano gradito il crocifisso a tornarsene a casa propria: l’Assemblea generale della Pro Civitate Christiana, ha risposto con una lettera (su Avvenire), in cui ha sostenuto: “Né ci si può barricare dietro il Vangelo come fosse uno scudo. E Gesù, l’uomo crocifisso, ha detto: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi». Ha detto “tutti”, non “benestanti, bianchi, italiani”. Significa che l’accoglienza è un valore cristiano, prima ancora che umano, perché l’ha detto Lui, l’Uomo della croce. E, da Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, ha reso questo valore comandamento divino.”
“Quest’uomo crocifisso – prosegue la lettera – da piccolo, ha dovuto scappare perché lo volevano uccidere, e ha trovato per sua e nostra fortuna qualcuno che l’ha accolto e l’ha aiutato a crescere, senza neppure aver bisogno di strapparlo ai suoi genitori.”
Il Dalai Lama (XIV Dalai Lama del Tibet.), ha scritto nel suo discorso “La compassione e l’individuo“: “Nella mia limitata esperienza personale, ho potuto constatare che è possibile raggiungere un elevato grado di pace interiore sviluppando l’amore e la compassione: più ci prendiamo cura della felicità degli altri e più cresce il nostro senso di benessere interiore.
Mentre nella sua Proposta di Pace 2018, sempre Daisaku Ikeda ha scritto a proposito di migranti e compassione: “oggi, con 258 milioni di migranti nel mondo e un numero sempre crescente di rifugiati, la diffusione di stereotipi negativi – come l’idea che tali persone costituiscano un peso o una minaccia – sta alimentando un clima di esclusione sociale”. Citando Louise Arbour, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani fino al settembre 2008, ha ribadito “la necessità che i migranti, come ogni altra persona, vedano rispettati e protetti i propri diritti umani fondamentali senza discriminazioni dovute al loro status”.
Il concetto di compassione, come si è visto in questo breve discorso, è proprio dell’Occidente (e non solo) e si porta appresso ben più di un simbolo identitario come il crocifisso, bensì una successione ininterrotta di secoli durante i quali uomini, studiosi, religiosi, scienziati e persone comuni hanno messo insieme una stratificazione di esperienze classificabili come cultura della compassione, basata sui bisogni dell’altro come garanzia per costruire una casa comune ben più salda per tutti. Come ci ha spesso ricordato Margherita Hack, la compassione, la coscienza e i principi morali non sono meccanismi, strumenti e sentimenti legati necessariamente al sentimento religioso (cristiano in particolare), bensì forti anche presso chi non ha basato il proprio agire sulla ricompensa dopo la morte o sulla salvezza eterna, ma semplicemente sulla felice convivenza.
La risposta a tale senso di perdita di compassione secondo Bauman (si veda Tuttolibri, 27 agosto 2018) risiede senza dubbio nella riscoperta della comunità, nell’utilizzo saggio dei mezzi di comunicazione e nel recupero dei rapporti diretti, perdendo l’impunità derivante dall’anonimia di cui ci ammantiamo sui social network e riprendendo in mano la responsabilità delle azioni dirette. Non solo compassione per i casi più eclatanti e sfortunati, ma anche per le piccole sfumature di ogni giorno in cui ci è possibile, in nome della compassione, fugare ogni “meglio a te che a me” e dare il benvenuto a un più sano “come posso aiutarti?”.
Non una società dei consumi, ma una società della comunicazione responsabile. Una vera sfida.
Immagine di copertina: Constance Kowalik on Pixabay, CC0 Creative Commons