Può esserlo di alcuni, può esserlo di una famiglia e di un’intera società: la malattia assume spesso in letteratura, al cinema o a teatro, il ruolo da protagonista e la sua rappresentazione ci permette di capire il grado di maturità etica di una cultura.
Siamo in tempi di Coronavirus, al momento in cui scrivo nessun territorio nel mondo può dichiararsi immune al contagio. L’Italia, cui appartengo per cultura e lingua, si trova in prima linea, per numero di contagiati e velocità di trasmissione del virus, nella gestione dell’emergenza. Seguendo la frase di Hermione Granger, personaggio della saga letteraria e cinematografica di Harry Potter, ho deciso di parlare della malattia (e delle sue degenerazioni sociali). Parlarne la esorcizza ed esorcizzandola se ne attacca il potere picologico che essa ha sui singoli e l’economia di una nazione: “La paura di un nome – dice la maghetta di Hogwarts – non fa che incrementare la paura della cosa stessa”.
La malattia intacca l’aspetto fisico di una persona (pensiamo a Quasimodo nel romanzo Notre-Dame de Paris (1831), di Victor Hugo, descritto come deformato, claudicante, gobbo e con una grande verruca su un occhio), lo esclude dal vivere civile (pensiamo, in tempi ancora più antichi, alla deformità fisica di Grendel nel poema in antico inglese Beowulf, “esiliato assieme alla razza di Caino”, che coincide evidentemente con la sua antisocialità) e permette, una volta estesa a una larga fetta del mondo circostante, l’emergere di disordine, divisione e demenza sistematica.
Boccaccio e Manzoni. La peste, il sospetto e la divisione
Alessandro Manzoni, nel suo I Promessi Sposi, dedica ben tre capitoli alla peste, alla sua diffusione fra la popolazione (anche Lucia ne scruta gli effetti sul suo corpo acerbo e stanco): nel capitolo 32 egli scrive come “del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento, e dall’agitazione delle menti, una forza straordinaria”, e infine aggiunge “il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. Oltre alle atrocità della malattia in sé e per sé, all’isolamento delle città e delle persone, l’uomo costruisce strutture mentali atte a proiettare il rifiuto della sofferenza scaricando le colpe su un individuo o più individui. Nascono così gli “untori”, coloro che, secondo una teoria complottista fantasiosa, con il solo tocco della mano sarebbero capaci di contagiare un morbo. Anche Renzo Tramaglino ne fa le spese nel capitolo 34 del romanzo quando viene scambiato per uno di loro: “pigliatelo, pigliatelo; che dev’essere uno di que’ birboni che vanno in giro a unger le porte de’ galantuomini”.
La questione del declino morale, come conseguenza della diffusione della malattia e frutto dell’ignoranza, o oscurità fondamentale, dell’essere umano sono al centro del Decameron di Giovanni Boccaccio. Un dipinto che raffigura un tessuto sociale e familiare sfasciato dal sospetto e dalla divisione:
E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.
L’autore immagina che nel periodo della peste del 1348, sette ragazze e tre ragazzi si isolino in una dimora di campagna fuggendo dalla città e dalla diffusione del morbo (e dai suoi effetti disumanizzanti). I loro comportamenti, in completa opposizione al clima di terrore causato dalla malattia, hanno nomi ispirati all’amore, al canto, al corteggiamento e ai piaceri della carne. Il tema delle novelle, raccontate dai giovani per passare il tempo, oppone il concetto di Fato (o fortuna), che trova l’uomo totalmente impreparato, alla volontà dell’uomo medesimo che si scontra con la Natura, fatta di istinti primordiali.
Molto prima di Boccaccio, Lucrezio, nel De Rerum Natura, descrive la peste di Atene del 430 a.C. come un momento terribile in cui “la mente sconvolta [è] immersa nella tristezza e nel timore” (VI, 1145-1196), mentre Tucidide ne parla descrivendo gli effetti devastanti anche sui medici e sulle norme del vivere civile, specialmente il sospetto dell’Altro: “Infatti né i medici prima di tutto erano in grado di curare il male per mancanza di conoscenze, ma essi stessi in particolare morivano quanto anche in particolare si accostavano (ai malati), né alcun’altra abilità umana; e il fatto che rivolsero suppliche ai luoghi sacri o fecero ricorso a oracoli e alle cose di questo genere, tutto fu inutile, e alla fine desistettero da quei sistemi, vinti dal male. E nella città degli Ateniesi piombò improvvisamente, e dapprima attaccò le persone nel Pireo, cosicché si disse anche da loro che i Peloponnesiaci avessero gettato veleni contagiosi nei pozzi: sorgenti infatti là non ce n’erano ancora”. (II 47,2-48,3)
Sartre e la nausea di una società demente
In Kafka la malattia assume sfumature autobiografiche in cui le condizioni di salute del corpo sono il riflesso della salute dell’anima: la tubercolosi, il rapporto con il padre, con la donna amata o con la società stessa, si riflettono nell’isolamento o nella mancanza di energia. Una sorta di apatia sociale e dei sentimenti. Accade anche in Marcel Proust, che nella Recherche descrive la zia Léonie come “convinta a tal punto della gravità della propria malattia da rinunciare alla vita” (la frase non è di chi scrive, ma di Eleonora Sparvoli ne “Contro il corpo: Proust e il romanzo immateriale”, Franco Angeli, 1997).
Ne La Nausea (1938), Jean-Paul Sartre si concentra sull’essenza malata dello stesso esistere. Tutto a Bouville – la cittadina dove vive il protagonista – esiste in modo feroce e dabbene, come i suoi stessi abitanti: “Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d’esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto”.
Ed è proprio questa inquietudine vuota alla base dei post sui social network, intrisi di ansia, terrore, fake news, bieco opportunismo politico, razzismo e polemica. La medesima nausea del vivere, nella “sdilinquita abbondanza” del tutto di cui ci circondiamo – come un cavaliere medievale con la sua armatura – spinge frotte di persone a fare la fila per accumulare derrate alimentari (che, vai a spiegarglielo, non mancano!), a partecipare a raduni, incontri o ad invadere le stazioni ferroviarie, derogando a ogni minimo buon senso, propagando la malattia, per scappare da un virus che non ti insegue e tu gli sfuggi, ma che è nell’aria, nelle lacrime o nelle mucose (in fondo, a guardare bene, nel tuo stesso comportamento).
Con la nascita dell’uomo contemporaneo e i passi enormi compiuti dalla medicina e dalla scienza, la malattia assume in letteratura, nel cinema, una piega sempre più intimista e psicologica. Dan Brown, che ne fa il centro del suo romanzo Inferno (libro del 2013, poi film nel 2016), coglie la sfumatura che mette in relazione pregiudizio e società sotto l’egida della malattia: “Only one form of contagion travels faster than a virus. And that’s fear”, scrive profetico.
Non a caso Scott Radnitz, sul The Guardian (3 marzo 2020) si è chiesto perché le teorie complottiste sulla diffusione del Coronavirus abbiano avuto così tanto spazio sui media o nei discorsi di certa politica (Why conspiracy theories spread faster than coronavirus). Entrambe le risposte fornite non solo consolatrici: se da un lato il complottismo aiuta a mascherare il fallimento delle politiche economiche relative all’assistenza sanitaria (Governments have resorted to conspiracy theories to distract from their own failures or to pre-empt criticism), dall’altro “conspiracy theories can be weaponised to weaken the body politic”. Lusingando la sfiducia nel potere democratico e rinvigorendo il senso di vuoto dell’uomo contemporaneo, il senso di solitudine e di ribellione anche al buon senso, si favorisce la distruzione di quanto più sacro possa esistere: l’organizzazione del vivere civile.
Proprio come il mostro Grendel nel Beowulf – così ben tradotto da J.R R. Tolkien – che assale la Sala dell’Idromele, sede vitale del vivere civile, del “coinvolgimento, condivisione, concordia, unità di intenti” (parole del Presidente Mattarella) in cui dimorano il Re e tutti gli esseri sociali, perché questi ultimi se ne allontanino, seminando fascistissima divisione (“In seguito non fu difficile vedere che ogni uomo ricercava un letto, un giaciglio remoto, in qualche altro luogo, in stanze meno ricche, poiché a ognuno era invero manifesto e chiaro, con segni patenti, l’odio di colui che oramai occupava la sala; in seguito ogni uomo sfuggiva al nemico tenendosene distante, al sicuro”, Beowulf, J. R. R. Tolkien, Bompiani)
Questo è in fondo il vero virus dell’uomo, la sua vuota assenza di riferimenti certi capaci di guidarlo nella vita fino all’estremo sacrificio dei suoi interessi più biechi in direzione del porto etico e più alto del bene comune (che possono essere per lui la vera salvezza). Svegliare l’essere contemporaneo dal sogno di una vita di supposta socialità, ammantato di privilegi e abitudini tutte – in fondo – asociali ed egoistiche, significa irritare questo essere, risvegliare il mostro impaurito e quieto (come il Grendel del Beowulf, dalla “casa della stirpe dei mostri”) e indicargli un risveglio morale che in fondo non vuole perché, citando Albert Camus, “le sommeil des hommes est plus sacré que la vie pour les pestiférés. On ne doit pas empêcher les braves gens de dormir. Il y faudrait du mauvais goût, et le goût consiste à ne pas insister, tout le monde sait ça”. (il sonno degli uomini è più sacro della vita per gli appestati; non si deve impedire alla brava gente di dormire. Ci vorrebbe del cattivo gusto, e il buon gusto consiste nel non insistere, è cosa che tutti sanno”).
Foto di copertina: Terri Sharp da Pixabay