Il monaco buddista Nichiren scrisse che “la sfortuna viene dalla bocca e ci rovina, la fortuna viene dal cuore e ci fa onore”, mentre Andrea Bajani invita a raccoglierlo come si fa con il sale dall’acqua di mare: estrarlo dalla terra e dai boschi.
Stiamo parlando del silenzio, quello che Erling Kagge, nel suo “Il Silenzio”, definisce come lo stupore per i pensieri che nascono nello spazio fra le nostre orecchie. La manifestazione del nostro Grande Io che si sviluppa nonostante il rumore circostante e che si allarga, si stiracchia, si evolve nel terreno del dubbio, della ricerca e della riflessione.
È il silenzio sublime e di roccia si cui si fonda la più grande verità, quella della dignità umana davanti alle grandi cose della vita e, spesso, anche davanti alle piccole: Gesú nei Vangeli manifesta la grandezza umana (e divina) nel silenzio. Non una parola davanti a Pilato, neppure un aggettivo o un semplice verbo in risposta a chi gli domanda qualcosa sui miracoli operati fra la gente. La folla lo acclama o lo schernisce, ma il ragazzo di Nazareth avanza silenzioso verso la sua storia, nella sua missione, senza una parola di troppo. Con il silenzio Cristo mette l’uomo davanti alle sue responsabilità che hanno il potere di essere contenute esclusivamente nelle azioni.
Daisaku Ikeda, nel volume “I misteri di nascita e morte”, racconta che “un giorno Shakyamuni, passeggiando nel Parco dei Cervi presso Benares, vide un cervo ferito disteso per terra, con una freccia conficcata nel fianco. Erano presenti anche due Bramini che, osservando il cervo morente, discutevano su quale fosse il preciso istante in cui la vita abbandona un corpo vivente, e speculavano sulla natura dell’esistenza dopo la morte. Vedendo Shakyamuni e conoscendolo come famoso “uomo di pensiero”, si affrettarono a chiedere la sua opinione. Shakyamuni si chinò rapidamente sul cervo e gli sfilò la freccia dal fianco.”
Non una parola, ma un silenzio assordante avvolge le parole del Buddha al quale esso fa seguire un’azione importante e necessaria. Più di ogni pensiero espresso in parole.
Tale è l’essenza del silenzio, la magia di racchiudere le più grandi azioni, la straordinaria virtù della madre che genera, del germoglio che irrompe dal tronco nel totale silenzio di una mattina di rugiada e tiepido sole.
In TV, sui social e nei luoghi di potere, la cui importanza non è certo mia intenzione mettere in dubbio, l’abbondanza di parole, e di immagini, corrode lo spazio dell’azione. Litigi, botta e risposta, analisi, insulti e infinite allocuzioni pretendono di sostituire l’azione, la potenza del simbolismo o del significato, con il rombo del significante. Il più delle volte ci riescono, ma inevitabilmente la portata effettiva del loro raggio “magico”, di trasformazione della realtà, risulta debole, breve, inefficace.
Capace di smuovere masse, di aizzare haters, di sollevare onde di sdegno, cattiveria, indignazione o violenza, e di cadere nell’oblio poche ore dopo, il rumore del post sui social a tutti i costi è più paragonabile a un rutto che a una dichiarazione di grandezza. Perché fondato sul rumore e non sul silenzio.
Sono grandi leader quelli conosciuti non solo per i grandi discorsi (laddove “grandi” non significa lunghi), ma anche per i grandi silenzi: la Regina Elisabetta si esprime pochissimo sul mondo circostante, il silenzio è il suo potere più grande, esprime equilibrio, distanza e rispetto. L’Imperatore del Giappone parla di rado, e quando parla lo fa con grande dignità, facendo appello ai simboli e alla potenza delle parole, preziose proprio perché poche. Il Presidente Mattarella conosce bene l’uso delle parole, e ne usa poche, le esprime solo in determinate occasioni, conscio di un ruolo e della forza di aggettivi, verbi e istituzioni la cui esistenza è frutto di storia e sangue versato.
Toni Morrison, nella prolusione al premio Nobel, scrive: “la lingua non può “definire con precisione” la schiavitù, il genocidio, la guerra. Né dovrebbe struggersi per l’arroganza di essere capace di farlo. La sua forza, la sua felicità sta nell’arrivare verso l’inesprimibile. Sia essa grande o piccola, che scavi, che esploda, o che si rifiuti di sancire; che sia una risata o un grido senza alfabeto, la scelta della parola, il silenzio scelto, il linguaggio indisturbato si solleva verso la conoscenza, non la sua distruzione” e ancora prosegue “solo la lingua ci protegge dall’essere spaventoso delle cose senza nome. Solo la lingua è meditazione.”
Il silenzio serve a dare nome alle cose, ecco perché – in fondo – abbiamo bisogno di poche cose e di poche parole (come gioielli). Consapevoli che il poco, in questo caso, segue il principio di Coco Chanel per cui prima di uscire occorre guardarsi allo specchio e togliersi qualcosa di dosso.