Harry Potter e la maledizione dell’Erede, basato sui sette volumi di J. K. Rowling e scritto da John Tiffany e Jack Thorne, sugli scaffali delle librerie dalla fine di settembre, è senza dubbio un successo di vendite (ed è per questo che non avrete un solo attimo di spoiling, nemmeno quando vi sarà sembrato). Predestinato al successo come qualsiasi cosa tocchi la penna d’oro della scrittrice britannica, che si è dichiarata “emozionata e nervosa” per la prima a teatro, il libro è unasceneggiatura teatrale in quattro atti che racconta le disavventure di un Harry Potter ormai cresciuto alle prese con i problemi della paternità, del lavoro, dell’amicizia e del passato. È in realtà la memoria a essere protagonista del volume: quella della storia originale, con il suo universo di storie, personaggi e problematiche, e quella del “nuovo” protagonista, cresciuto nel mito di se stesso e ora alle prese con qualcosa – gli affetti – da dover gestire in autonomia, senza maledizioni o aiuti di terzi, con la sola forza della propria volontà.
Chiedi a me, tra tutti, come si fa a proteggere un ragazzo i pericolo?
Non possiamo proteggere i giovani. Il dolore deve venire e verrà.
(Harry Potter e la maledizione dell’erede, Salani Editore, 2016)
Il libero arbitrio, unica vera forza dell’essere umano, rimane quale corpo centrale del messaggio della Rowling ed è subito riconoscibile nell’uso dei verbi di volontà, come volere o scegliere, affiancato a sostantivi importanti come amicizia, amore o morte. A questo, e al coacervo di luoghi letterari e mitici di cui Harry Potter è uno scrigno, i due autori e registi affiancano un linguaggio giovanile che in alcuni tratti traspare dalle espressioni e dalla scelta degli anacoluti, tipici del parlato, e dagli aggettivi, semplici e lineari.
Protagonisti, nella sceneggiatura e sulle tavole del palcoscenico del West End, sono una Hermione e una Ginny pienamente adulte, madri e lavoratrici fortunatamente senza lo stigma della figura femminile secondo certo Fertility Day, un Draco molto cambiato (ma non vi dirò quanto), un Albus Severus Potter e uno Scorpius Hyperion Malfoy ricchi di emozione (“sono il figlio di Voldemort, senza madre, che continua a regalare affetto al ragazzo che non restituisce mai niente”). Soprattutto quest’ultimo risulta uno dei personaggi più sfumati, ombroso, gotico e sensuale, capace di sviare il lettore, specialmente all’inizio. Alcune azioni concettuali risentono delle “magie” di scena, specialmente quando un quadro si sovrappone ad un altro con tecniche e movimenti che, almeno sulla carta, richiamano gli espedienti dei musical tedeschi di Michael Kunze e Sylvester Levay.
Manca ai personaggi, senza dubbio, quell’eloquio rowlinghiano, quello sguardo da narratore colto che accompagni le azioni dei personaggi nelle annotazioni di regia, tuttavia rimpiazzato, nei lettori più attenti e innamorati, da quel mondo che la scrittrice ha creato e instillato. È sempre un’emozione leggere Harry Potter: quando si impone sul figlio con metodi non proprio democratici, quando permette di rivivere Piton, il Torneo Tremaghi e la sete di morte diVoldemort. Proprio quest’ultimo, accompagnato dalla cicatrice che brucia, è un monito alle generazioni più giovani perché la memoria dei totalitarismi e degli integralismi di ogni tipo non venga dimenticata.