Il discorsetto di Sabrina Ferilli ieri sera (lo trovate qui), all’ultima serata del Festival di Sanremo, ben si allaccia con gli sproloqui digitali (leggi: valanga di post) che si sono riversati nelle ultime ore sulla tragica fine di un bambino in Marocco e, a ben vedere, alla brutta aria di somministrazione di urgente sensibilità in vena (verso la qualunque) senza sapere, a momenti, nemmeno di ciò di cui si sta parlando. Si ricollega anche al momento che viviamo, un momento di ricostruzione che rischia di disinnescare la sua efficacia se ridotto tutto a un virtuosismo dell’empatia.
“Ecco, rilassatevi, perché ho una notizia da darvi: non ho un monologo – così ha esordito l’attrice – M’hanno detto: vai a Sanremo, fai un monologo! So’ due anni che famo monologhi dentro casa chiusi, soli, coi lockdown e io arrivo e faccio un monologo.” Ha iniziato così e ha poi proseguito: “M’hanno detto: parla di famiglie, un tema altrettanto importante, di donne che fanno tanto per mandarle avanti, c’hanno figli, lavorano, educano, è roba articolata. Ma figli non ce l’ho, sono un’attrice avviata, ho pure un marito benestante. Perché devo andare a tutti sulle palle così, de botto. Ma chi me lo fa fa’.”
“M’hanno detto – ha poi preso la scena in un crescendo di esempi – parla di femminismo, di body positivity, di mansplaining, di schwa, ma poi me so’ detta […] per parlare ‘sti temi bisogna che lo faccia chi si sporca le mani tutti i giorni da palcoscenici un po’ meno scintillanti di questo, chi queste cose le studia seriamente.”
“M’hanno consigliato: trattiamo di un argomento che coinvolge tutti, la bellezza. No la bellezza dell’asino, quella che piace a te: no, quella più profonda, la bellezza interiore, dell’imperfezione… ma so’ quattro giorni che mangio radici pe’ entra dentro sto vestito, e non avevo una grande credibilità, e bisogna essere credibili. Dicono: «la bellezza capita», ma ci si lavora anche parecchio, non è che capita.”
“Perché devo cerca’ un senso alla mia presenza oltre quello che sono, che faccio, che mi ha portata fin qui? La mia storia, le mie scelte, i mie affetti, la mia professione, la tenacia con cui mi sono presa quello che mi dovevo prendere sono le cose migliori che mi possano accompagnare su questo palco e che possano accompagnare ogni donna, ovunque, la nostra storia. Se io ho scelto questa strada non è che non sappia cosa succede, quante cose sono da cambiare, non sono uno di quegli stolti tanto ben raccontati nel film “Don’t look up” che mentre la cometa punta dritta verso la terra si gira dall’altra parte o crede a quello che ha letto su Telegram. Ho scelto questa strada, stasera, perché, come scrisse Italo Calvino, in tempi così pesanti bisogna saper planare sulle cose con leggerezza, senza macigni sul cuore, perché la leggerezza non è superficialità.”
Le persone di questa nostra povera epoca sono vittime di una società logorroica e pesante, frutto della sovrabbonandanza di empatia spettacolarizzata per la quale non conta la trattazione di un problema, o la condivisione di un dolore, ma il sentire forte un evento “tutto in una volta” per scuotersi dal torpore di una povertà di sentimenti che, giorno dopo giorno, manifestano nei confronti di chi entra in contatto con loro per lavoro e per motivi di vita. Il torpore nel quale sono immersi è a lungo andare fastidioso, inaridisce persino le vite più perfette, quelle che, volenti o nolenti, ci si porta addosso. A tale torpore questi perfetti e aridi cittadini 2.0 reagiscono con potenti overdose di empatia, la cui velocità ad esaurirsi è paragonabile solo alla capacità di evaporazione di una goccia d’acqua nel deserto. Ed ecco che allora, come dice Sabrina Ferilli nel suo “non-monologo”, nasce l’esigenza di parlare di qualsiasi cosa con esagitata, pressante e veloce necessità: i vaccini, i non vaccini, il bambino morto nel pozzo, il presidente della Repubblica, il lavoro, la disoccupazione, la violenza, il razzismo, le donne, la bellezza, il body shaming, la sofferenza (e chi più ne ha più ne metta). Parlarne anche a costo di non conoscere ciò di cui si parla, per l’appunto in nome dell’empatia.
Ma la domanda da porsi è: se è legittimo provare un moto di indignazione, di sofferenza o, in definitiva, di empatia, quanto è normale che esprimerlo superi di gran lunga il provarlo e, ancora peggio, il mettervi una qualsiasi forma di rimedio o adottare un comportamento efficace e coerente nella “vera” vita? Quanto il manifestare – magari con un post social – con sorprendente velocità ed espressioni linguisticamente efficaci il proprio dolore/indignazione/pensiero nei riguardi di un evento (o una situazione) corrisponde a sentire profondamente tale dolore/indignazione e si traduce poi in gesti coerenti ed efficaci nella realtà?
Come rimediare? Esprimere dolore, indignazione, disappunto o semplice gioia per qualcosa o qualcuno implica, in un contesto di normalità cognitiva, una conoscenza prima di tutto completa dei fatti (delle persone, degli eventi e dei luoghi) di cui si sta parlando. In secondo luogo, implica capire se quel dolore, quelle sofferenze, quel senso di ingiustizia o di gioia, è paragonabile a qualcosa che possiamo aver provato anche noi nella nostra esperienza di vita. In terzo luogo, include anche saper riconoscere fra noi e quelle persone/cose/eventi/luoghi/sofferenze/gioie una distanza effettiva che, si badi bene, non è da confondere con l’indifferenza, ma un fattore effettivo e concreto. La distanza in chilometri, la distanza sociale, la distanza dovuta al fatto che non si conosce quella persona determinata o quel territorio, devono – in un soggetto normale – determinare la carica di empatia o la sua manifestazione, senza per questo togliere la vicinanza in termini umani, o l’azione concreta in termini sociali. L’eccesso di empatia espressa è a ben vedere un sedativo, un appagante sedativo inversamente proporzionale al reale cambiamento nel mondo.
Sdilinquirsi tanto a parlare di sofferenza altrui, magari con sedici post al minuto vomitati sul web, non ci identifica come empatici ma solo come logorroici. Quello che ci rende empatici è l’aiuto concreto dato a chi abbiamo affianco, di certo non la frase di circostanza, alla quale non segue azione, e tantomeno il post social sulla morte dello sfortunato di turno o sulla carenza di giustizia nel mondo del lavoro. Quello rende solo più à la page, ma non più umani. L’esercizio di retorica sull’empatia non è empatia, non è servizio alla comunità, è solo un discorso.
Questo è al centro del discorsetto di Sabrina Ferilli. Iniziamo a dare forma all’empatia con lucida coerenza, con quella capacità di provarne concreta forza e coerenza nelle nostre vite. C’è leggerezza anche nell’empatia, senza macigni: il bene provarlo e con leggerezza anche farlo. Diffidare dalle imitazioni!