Lucidando posate, immaginando mani che le hanno usate, chiacchiere che le hanno levigate e dopo cena di affari, di attenzioni e risate che ne hanno sostituito il tintinnio biancolucente. E quelle labbra di signora, di rossetto color ciliegia Molinard, di stizzita sopportazione e caldi “ti amo” che ne hanno lusingato i rebbi, inscenando legami familiari e onorando amicizie, rapporti, sguardi e ospitalità di varia natura.
Di lato il forchettone con le due corna affusolate ad elsa, lustrato a specchio, poggiato sull’arrosto che riposa inebriante fra i ventagli di ravanello, un lembo di lino ricamato e una porzione di mano maschile: uno chevalier con onice sbreccata e più su un fermacravatta, una freccia razionalista, stilizzata, appuntata appena sotto un nodo di cravatta Atlantico, ovoidale, che odora ancora di muschio e tabacco.
E ancora, i bicchieri di cristallo contro i quali hanno per sbaglio e garbatamente urtato le posate, piccoli incidenti argentini dal sapore Demi sec: divulgativo esempio delle gioie alcoliche, fuoco d’artificio preparatorio all’accoglienza del dolce. Nera e allappante Sacher ammorbidita nell’albicocca. Lì, sulla piccola forchetta, si erge il pan di Spagna leggero, orgoglioso fra il pollice e l’indice femminile, floreale e bulinato il manico fra dita moon manicure, malizia e noia fatta di portasigarette in giada e bachelite.
E poi il cucchiaio, che non sporge, non attacca, non previene, ma accoglie, riflette e inizia il pasto. Nella lunetta rovesciata un lampadario in vetro, la voce di Milly in un tango acidulo e, infine, un limoncello per brindare alle estati lontane. Sulla poltrona nel salotto – oltre l’arco, i tavolini, il pianoforte a coda e le frange – Signorsì, qualcosa di Colette, “en haut de la maison, les briques de chocolat séchaient, posées toutes molles sur la terrasse”, e piccoli acini d’uva di cera in un cofanetto di peltro.
(Matteo Tuveri© – All rights reserved)