Nell’articolo sulle Unioni Civili su La Repubblica, scritto da Liana Milella, si parla di numeri, con l’enorme cifra di 2.802 unioni nel 2016 più 369 fra gennaio e marzo 2017. Queste ultime giudicate poche per il giornale italiano che nel titolo definisce un “flop” la legge.
Per quanto la giornalista conceda il beneficio del dubbio a questo supposto flop, scrivendo come “dovranno essere gli studiosi a spiegare se nel Sud non ci sono proprio persone dello stesso sesso che vogliono unirsi ufficialmente, oppure se le coppie omosessuali ancora si nascondono, magari perché rendere ufficiale il rapporto, e quindi l’unione, potrebbe avere conseguenze sul lavoro e la vita sociale“, ci si chiede come mai la stessa persona non maturi riflessioni più profonde sul fenomeno “matrimonio”, prendendo in considerazione (almeno come spunti) il calo costante dei matrimoni tradizionali (e non) in generale, la disoccupazione imperante e persino il periodo dell’anno.
Non solo gennaio, febbraio e marzo sono periodi in cui tradizionalmente non ci si sposa (o unisce civilmente, tanto per estendere il concetto) – c’è freddo, non si hanno a disposizione giorni di ferie – ma c’è anche da dire che per sposarsi, e mettere su casa, occorrono soldi (almeno per un affitto di casa) e che i preoccupanti dati sulla disoccupazione e il precariato, che la stessa Repubblica ha trattato, creano problemi di emancipazione economica con riflessi sulla formazione di nuove famiglie.
Definire un flop, con un titolo sensazionalistico (cambiato ora online dalla redazione), una legge che aggiunge diritti è sintomo di una visione della società e della politica che non augurerei nemmeno al peggiore dei Talent Show: i Diritti Civili e Umani non sono lo share di una trasmissione TV, non sono un televoto, ma un Diritto di espressione – in questo caso della propria e personale vocazione all’amore – che lo Stato riconosce a ogni cittadino che, se vuole (nei tempi e nei modi che riterrà opportuni), potrà esercitare.
Il percorso intrapreso e iniziato con la Legge n. 76 del 20 maggio 2016, è una strada rivoluzionaria per un paese paralizzato nel passato che richiede tempo, alla società, alle persone e anche all’economia, e che va per fortuna oltre i titoli sensazionalistici che ogni tanto il mondo del giornalismo propone. Un percorso rivoluzionario verso la piena uguaglianza (per quanto solo agli inizi) non è di certo un flop (da 0 a 2.800 sembrano un flop? Detto fra noi: “ma che se devono sposà pe’ fatte un favore?“), come invece sembra esserlo certo sensazionalismo.
Per dirla con le parole dell’articolo, anche la corsa al giornalismo a volte ha i suoi rallentamenti.