Ho avuto modo di intervenire in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (clicca qui), che si tiene il 25 novembre, ripercorrendone insieme le ragioni, la storia e purtroppo i numeri (che crescono se consideriamo il femminicidio non solo nella sua accezione di omicidio, ma anche nelle sue sfumature verbali e comportamentali). Nel recente volume “Proceedings of the 18th Conference of the Simone de Beauvoir Society. Yesterday, Today and Tomorrow” (Cambridge Scholars Publishing, UK, 2016) ho inoltre raccontato la storia della donna in Italia dall’Unità all’aberrante periodo mediatico berlusconiano.
Il termine Femminicidio nasce nel 1800 su un libretto satirico ma è nel 1975 che il termine, utilizzato dalla scrittrice Carol Orlock in una sua antologia (mai pubblicata), attira l’attenzione di studiosi e giornalisti.
Femminicidio viene poi utilizzato da Jane Caputi, docente di Studi Culturali Americani, e dalla criminologa Diana Russell, con la sua accezione di assassinio di una donna, per mano di un uomo, per odio, disprezzo, sadico piacere o affermazione di possesso (“The murder of women by men motivated by hatred, contempt, pleasure, or a sense of ownership of women” Caputi J, Russell DEH. Femicide: speaking the unspeakable, 1990).
Nel 1997 Marcela Lacarde definisce Femminicidio quell’atteggiamento che “implica norme coercitive, politiche predatorie e modi di convivenza alienanti che, nel loro insieme, costituiscono l’oppressione di genere, e nella loro realizzazione radicale conducono alla eliminazione materiale e simbolica delle donne e al controllo del resto. Per fare in modo che il femminicidio si compia nonostante venga riconosciuto socialmente e senza perciò provocare l’ira sociale, fosse anche della sola maggioranza delle donne, esso richiede una complicità ed un consenso che accetti come validi molteplici principi concatenati tra loro: interpretare i danni subiti dalle donne come se non fossero tali, distorcerne le cause e motivazioni, negarne le conseguenze. Tutto ciò avviene per sottrarre la violenza contro le donne alle sanzioni etiche, giuridiche e giudiziali che invece colpiscono altre forme di violenza, per esonerare chi esegue materialmente la violenza e per lasciare le donne senza ragioni, senza parola, e senza gli strumenti per rimuovere tale violenza. Nel femminicidio c’è volontà, ci sono decisioni e ci sono responsabilità sociali e individuali.” (Il testo completo qui)
Da allora il termine è entrato nell’uso comune e nel 2011 è stata sottoscritta a Istanbul dai membri del Consiglio d’Europa la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Tale convenzione rappresenta “il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza, e di prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica.”
Alla base del concetto, e del termine, risiede non solo la violenza nei confronti della donna, ma anche una stortura nel concepire il ruolo dell’uomo il quale, culturalmente e socialmente, viene oppresso esso stesso da un modello riproduttore aberrante per il quale il dono del seme nella catena riproduttiva nel determina la supremazia. Alla base del Femminicidio risiedono dunque le varie forme di razzismo di genere come l’omofobia.